l'orsa di mezzo

Perché tra il maggiore e il minore non c'è un buco nero


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Interno notte – 2

La luce ora c’è ma il movimento no. L’ascensore non riparte.
Premono entrambe più volte sul pulsante di emergenza. Un trillo rimbalza nel buio su e giù per la tromba delle scale. Invano. Nessuno reagisce, figuriamoci Giovanni, completamente irretito da “Sepolti in casa-animali”.
Possibile che in tutto il condominio non ci sia altra anima viva?
Le scale, maledizione, perché non ho preso quelle?
Il pensiero è solo di Dina; l’altra, con quegli stivali, non se lo sogna nemmeno di fare cinque piani a piedi, per di più in discesa.
L’ascensore è fermo, il silenzio sembra anche, ma di nascosto frigge e pizzica.
Il tempo, dal canto suo, se ne infischia delle esigenze umane e avanza crudele.
La ragazza è nervosa, scruta l’orologio continuamente. Di solito la cosa funziona, per fermare le lancette, ma solo nel caso contrario, quando vorresti che le ore mettessero il turbo.
Anche l’aria è in continuo movimento e sposta – canaglia – verso l’alto i variegati olezzi che sgusciano fuori dai sacchetti dell’immondizia. Li porta su a litigare col profumo intrigante della Slo-vacca. Tocca parlarle, porca miseria.
“Mi scusi eh, dai sacchetti esce un po’ di odore, sa com’è, ho fatto le acciughe al verde, poi c’è il cavolfiore di ieri…”.
“Fossero tutti lì, i problemi. Io se non esco subito di qui sono nei guai seri, sai che me ne importa della puzza dei tuoi cavolfiori”.
Arrogante…
Le squilla il cellulare, e per qualche minuto è tutto un ricamo sghembo di parole abbaiate e pezzi di rabbia sputati da una voce maschile, rimpalli di proteste, improperi e repliche acute, tutto ovviamente in slo-vacco. Un ultimo insulto scandito in perfetto italiano chiude la comunicazione.
“Mezzanotte meno venti, ecco, mi sa che ho perso la Messa”, bisbiglia Dina, guardando per terra.
Ma è inutile cambiare argomento.
“E io il mio numero con Pretty Blackie “Le Regine fanno scacco matto”! Tiriamo su un botto di mance, con quello…”
“Ma la gente viene al night anche la notte di Natale?”
“E certo, che ti credi, c’è sempre il pienone. Sai quanti bravi cristiani scaricano la mogliettina e vengono su dopo la Messa? Sono i più scatenati. Hanno ancora le briciole dell’ostia nelle mani e te le infilano dappertutto.”
A Dina si drizzano i peli delle braccia. Pensa all’anno scorso, che aveva mal di testa, Giovanni l’ha portata a casa all’una e poi è tornato a mangiare il panettone con la cioccolata all’oratorio “Perché il parroco ci tiene così tanto…”
Si ripropone di chiedere conferma al prevosto, sempre che quello non le racconti una balla, ché tra uomini si proteggono sempre.

Lei il cellulare l’ha lasciato in casa; mica uno se lo porta dietro, per andare a buttare i rifiuti.
“Prestami il telefono, va, che provo a chiamare quella larva di mio marito.”
Tenendo l’apparecchietto in punta di dita a cinque centimetri dall’orecchio, per precauzione igienica, sbraita: “Come, dove sono? Sono bloccata nell’ascensore con la Slo…signorina del piano di sopra!”
“Cavolo, che fortuna! Perché a me non capita mai?” Risponde lui, mezzo intontito.
“Muoviti a fare qualcosa invece di dire scemenze, e dopo cancella subito il numero. Anzi te lo cancello io!”
Tempo dopo un discreto trambusto fa intravvedere alle recluse la possibilità di una repentina liberazione, ma la situazione non è così semplice. L’ascensore è fermo a metà tra due piani ed è necessario l’intervento del tecnico.
Dina è molto agitata, dovrebbe andare al bagno e non sa quanto potrà resistere. Le viene in mente quella pubblicità degli assorbenti profumati dove una donna – più anziana di lei, sia chiaro – prova imbarazzo a stare in ascensore con altri, poi si consola guardando i sacchetti pieni di immondizia: in quanto ad odori sgradevoli non ha nulla da temere, se anche dovesse sfuggirle qualcosa non ci sarebbe competizione.
La ragazza sembra abbastanza tranquilla, ora. Guarda per aria, sospira e batte ritmicamente un plateau ma per il resto non fa nulla di strano.
Fino a quando non lascia andare un gemito e scivola lungo la parete arrivando a posare il fondoschiena in terra. Appoggia la fronte alle braccia incrociate sulle ginocchia. Il pellicciotto bianco sobbalza.
“E’ la fine, sono rovinata.” Balbetta fra i singhiozzi.
Ecco, ci mancava solo questa. La Dina non sopporta le frigne, soprattutto quelle di chi è causa del suo male. Le tirerebbe un calcio nel sedere ossuto, così almeno avrebbe un motivo serio per piangere.
Ma invece: “Dai, smettila, non è niente di grave. Fra poco usciamo”, le dice, infastidita, dopo un po’.
“No, è gravissimo invece! Erzan ha detto che se salto ancora una serata sono fuori dagli spettacoli. Stavolta mi tocca andare a battere per strada.”
“Ma no, sono sicura che trovi una soluzione.”
“Tu che ne sai, il tuo problema è la messa di Natale. Io qua non ho nessuno che pensi a me, devo risolvere tutto da sola e mandare pure i soldi a casa.”
“Ma hai dei figli, in Slo…?”
“Quale Slo…in Bielorussia, vengo da lì. No, ho solo mia mamma e una sorellina di otto anni.”
“Mi spiace. Anche io ho una figlia più o meno della tua età che vive lontano, in Danimarca, ma è là per studiare, e per mantenersi fa la cameriera, lei.”
”Anche io a mia mamma ho detto che faccio la cameriera.”
“Ah.”
A Dina la pelle d’oca non va più via, stanotte. Le parole invece le ha smarrite, scappate dietro a fotogrammi mentali di ipotesi terrificanti.
Sente di colpo le ginocchia stanche. Si siederebbe anche lei per terra, se non fosse che il bisogno si fa impellente e teme di allagare il pavimento.
Sospira forte. Stira la schiena contro la parete, incrocia le gambe strette strette, supplicando la muscolatura di resistere.
“Che hai?”
“Niente.”
“Perché fai così? Ti scappa?”
“No, no.”
“Dai, ti scappa…si vede!”
“Embè?”
“Embè niente. Se ti scappa è un casino. Come fai?”
“Bella domanda, è un’ora che ci penso!”
“Non hai niente che vada bene lì dentro?” dice la ragazza allungando il collo verso i rifiuti.
“Ma che dici, sei impazzita? Non vorrai mica che la faccia in una bottiglia?”
“In una bottiglia no ma in questo sì!” esulta l’altra, alzando il bidoncino del vetro.
“Neanche per idea.”
“Allora fattela addosso. Sai cosa me ne importa, glielo spieghi tu a quelli là fuori, quando ci aprono.”
“No!”
“Guarda che a me è già capitato. In un treno con il bagno rotto, e non sono stata così fortunata, avevo solo una bottiglia vuota di coca-cola.”
“E come hai fatto?”
“Eh…ho fatto. Dai, usa questo, che ci vuole.”
Dina è tentata. Sente di non resistere più, ma esita.
“Da fuori sentiranno il rumore.”
“Ci penso io.”
La giovane maneggia il telefono e poco dopo parte una canzone.
“Dai, falla.”
“Tu girati, però. E prometti che non dirai nulla a nessuno!”
“Promesso.”
“Ehi.”
“Che c’è?”
“Grazie.”
“Figurati.”
Un’ora dopo in quello spazio angusto le due donne sedute in terra, i fianchi appiccicati, le gambe incrociate vicino ai sacchetti posati sul bidoncino, hanno trovato infine il modo di rosicchiare il tempo.
Quando il tecnico e Giovanni, piuttosto in ansia per il silenzio prolungato, riescono a infilarsi nell’ascensore e strizzano i nasi per il tanfo bestiale, ronfano beatamente.
Una testa sulla testa. L’altra sul pellicciotto bianco, sporcato di acciuga.

Poco dopo tra sbadigli e stiramenti di membra indolenzite le due si salutano.
Giovanni fa il gesto di prendere i rifiuti ma Dina lo blocca.
“No! Ci penso io!” Intima, facendo l’occhiolino alla ragazza, che si toglie gli stivali e sale le scale ridendo.
Il povero Giovanni non capisce, ma come mille altre volte si adegua. Le donne hanno sempre qualche mistero. Alza le spalle e va a spegnere la tv, che ha continuato per tutto il tempo a sbraitare inutilmente.
Sono le cinque del mattino di Natale.
“Giovanni”, biascica Dina nell’ingresso, “La nostra bambina, a Copenhagen, non è che fa anche lei gli spogliarelli?”
“Ma l’hai vista?”
“Cretino che non sei altro, vuoi dire che è brutta?”
“No, dico, è bellissima, ma è alta un metro e mezzo, non puoi paragonarla alla Slo-vacca.”
“Non chiamarla così, è una ragazza in gamba, studia all’università e si chiama Hristina. Come nostra figlia, ma con l’acca. E poi non viene dalla Slo…”
“Ma eri tu che…”
“Basta! Io non la conoscevo, e adesso invece sì. E fra poco anche tu, visto che oggi mangia da noi; non ha mai assaggiato le acciughe al verde, ti pare possibile?
E a Pasqua andiamo a Copenhagen, che voglio controllare di persona cosa fa Cristina.”

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Quarto: che peso, la spesa…

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Ore 18,40. IPERCOOP. Corsia sughi pronti-scatolame.

Odio fare la spesa.
Maledico per l’ennesima volta l’infausta scelta  di non prendere il carrello, che mi costringe, come sempre, a posare da qualche parte il cesto rosso, strapieno, e poi smarrirlo. Ma non hanno ancora inventato un cesto wireless che torna da mamma a uno schioccare di dita?
Ho già perso almeno due dei miei preziosissimi minuti e sto iniziando a imprecare ad alta voce, quando lo incontro.
Mi lancia un “Ciao!” di quelli lunghi e trascinati, abbinato a: sguardo laser e Durbans-48 denti. Non servono altre parole. Ma bravo!
Mentre copioincollo il saluto, attenta a zipparlo perché non sembri troppo felice, passo oltre, fingendomi interessata a un pesto siciliano di cui non mi è mai fregato nulla.
Lo stato confusionale dura un attimo, considero che dall’ultima volta che lo vidi – saran passati almeno 15 anni – è migliorato parecchio; l’età gli ha fatto bene.
Come a me, del resto, l’ho scoperto or ora, toh.
Recupero i frammenti di me stessa sparsi in giro e mi dirigo con passo deciso verso il reparto vini. Un buon rosso è quello che ci vuole, per accompagnare l’arrosto e la serata con mio marito verso un prevedibile, ma sempre gradito, lieto fine. Magari condito da un pizzico di pensierino piccante sul tizio che ho appena incontrato.
Lungo la strada trovo anche il cesto, ottimo pretesto per il mezzo sorriso idiota che non riesco a cancellarmi dalla faccia.
Sono ormai in dirittura d’arrivo quando, ai minestroni surgelati, rieccolo, insieme alla consorte. Mi risaluta come se mi vedesse per la prima volta, ma il  “ciao” che mi spedisce stavolta è appena accennato, quasi distratto, serio, mentre lei, affatto gentile, mi squadra dai capelli alle scarpe, gelida più delle zuppedelcasale, e se lo tira dietro. Direzione: pollame.
Pesco ancora un merluzzo (a filetti) e mi dirigo, sogghignante, alle casse.
Il cesto lungo il percorso esonda. Perdo il parmigiano e due yogurt.
Aspetto, impaziente, il mio turno.
Ho un sesto senso per le casse sfigate, quando arrivo io si rompe sempre qualcosa, o manca un codice a barre, o la cassiera abusa di Tavor.
Frugo nella borsa alla ricerca della tessera-punti e con la coda dell’occhio lo scorgo, due casse dietro di me.
La mogliettina è impegnata a svuotare il carrello (lei sì che è previdente, non come me); lui coglie l’attimo e mi linka lo sguardo addosso.
Lo sento trapassare ogni strato di stoffa.
D’istinto inarco lentamente la schiena, in un gesto impercettibile al resto del mondo,  conscia dell’effetto magnetico di curve anatomiche di cui – oh, che peccato – la consorte in questione è dannatamente sprovvista.
Mi stupisco della perfidia con cui non-penso. Non è da me. Sì, è da me.
Ma che caldo fa qua dentro! Ecco, tocca a me, peccato…
Pago, spargendo centesimi di rossore.
Infilo nei sacchetti la pasta, i piselli, il latte, il vino, il pane, l’arrosto, il merluzzo, l’altro mezzo sorriso e me ne vado.
Spero non si sentano le fusa, adieu.

Ego e dispensa, per oggi, son salvi.