Inquietudine è un insieme di lettere vergato su una striscia di bianchetto.
Sotto, ben nascosta, c’è la parola vera, ma per andarla a leggere non basta una grattata con l’unghia.
Inquietudine è passare da una stanza all’altra, e poi a un’altra e poi a quella di prima senza saperne la ragione. E’ aprire il frigorifero e stare lì imbambolati a osservarne il contenuto chiedendosi perché mai si sia fatto quel gesto. Trovarsi al piano terra e non ricordare di aver fatto le scale.
E’ lavorare senza riuscire a concentrarsi, lasciando dieci cose a metà senza poterne finirne nemmeno una. Trovarsi , dopo, più stanchi che mai.
Comporre un numero di telefono e farsi prendere dal panico quando dall’altra risponde qualcuno la cui identità ci è improvvisamente ignota. Osservare con sguardo vitreo ma convincente la collega che da dieci minuti ti racconta i cavoli suoi, fare sì sì con la testa. Vuota.
L’inquietudine non ha la faccia.
Prende una serie di gesti apparentemente slegati e li incolla insieme ma non asciuga. Rimane vischiosa per un bel po’; appiccicando e appiccicando riesce a formare agglomerati di ore che diventano un bolo, impossibile da digerire.
Non si scioglie con l’alcool. Non si placa col fumo. Rimane a vegliare il tuo sonno leggero e ti aspetta ai piedi del letto, pronta a infilarsi tra la pelle e i vestiti.
L’inquietudine è un temporale.
Il tuono rimbalza tra le pareti e il soffitto del cielo, spargendo il suo rombo indistinto nell’aria ma l’origine è là: nel lampo che strappa l’orizzonte in un punto preciso e fugge ricucendolo alla svelta, prima che il tuo occhio lo possa imprigionare.