l'orsa di mezzo

Perché tra il maggiore e il minore non c'è un buco nero


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La gente è pazza

All’Ipercoop ho visto due tizi portare al banco informazioni una torta, bruciata sotto e cruda sopra, a testimonianza del fatto che il forno che avevano acquistato non funzionava bene.

Fortuna che non avevano comprato uno sciacquone.

C’è da sperare che non gli capitino mai dei profilattici difettosi.

avatar piccolo espe

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L’anima nuda

Dentro di me c’è un’anima che urla.

E’ un’anima libera e sanguigna, piuttosto ingombrante, tendente agli eccessi.
A quest’anima che ho dentro piace ridere sguaiatamente, cantare a squarciagola, ballare scuotendo i capelli, ubriacarsi fino a non sapere più chi è, dire e scrivere tutto ciò che le salta in mente.  Vorrebbe correre scalza, spogliarsi nuda e cavalcare controvento, accoppiarsi senza remore con le anime che le sono congeniali.
A volte le capita di arrabbiarsi e le viene voglia di spaccare tutto, insultare il mondo, sbattere la testa contro il muro, ma di rado, perché di fondo è un’anima positiva e preferisce concentrarsi sulle cose belle e goderne, con tutta la gioia possibile, il meglio. Chiamala scema.
Fino all’adolescenza l’ho lasciata crescere con me senza farci troppo caso, poi ho cominciato ad averne paura, poiché usciva troppo dagli schemi  che il mondo mi disegnava addosso. Temevo che mi portasse troppo lontano, in luoghi affascinanti ma pericolosi da cui forse non sarei più riuscita a tornare.
Adattabile, obbediente e un po’ codarda come sono, sempre desiderosa di ottenere approvazione, ho cominciato a vestirla da ragazza perbene prima e da giudiziosa madre di famiglia poi, a tapparle la bocca e legarle le mani quando mi accorgevo che stava esagerando, a vietarle di cedere a tentazioni che avrebbero potuto oltrepassare il confine del controllo, a spalmarla di strati e strati di severità e buon senso fino a domarla del tutto, fingendo di ignorarne le urla e gli scuotimenti, confinando alla dimensione onirica la sua esuberanza.
Il compromesso sembrava accettabile e duraturo.
A un certo punto però il conflitto di interessi ha generato una crisi. Non si può pretendere di contenere un rampicante in uno spazio limitato ed aspettarsi  anche che fiorisca.
Bisognava forse capirlo prima di arrivare al punto di rottura, ma spesso è necessario cadere e farsi male per imparare a stare in sella in maniera più o meno decente.

Ciò che sono adesso è il risultato di un grosso lavoro e devo dire che, a parte qualche rimpianto per i limiti che mi sono imposta e un po’ di rimorso per il male che inevitabilmente ho dovuto fare ad altri lungo il percorso, e che avrei volentieri evitato, non mi posso lamentare.
Ho lasciato infine che la bilancia pendesse un po’ dalla parte della mia reale natura, non senza dolorosi compromessi e rinunce. Mi pare di somigliare un po’ di più alla mia vera me stessa, rispetto a qualche anno fa. Le cicatrici poi arrivano con la vita; accettarle e vederle come ornamenti fa parte del cammino, che non finisce mai.

A volte penso che mi piacerebbe sapere cosa sarei diventata, se avessi assecondato  di più  la mia indole, senza tutte quelle forzature. Mi capita soprattutto quando sarei tentata di lasciare le redini e mi rendo conto che ormai non sono più in grado di farlo del tutto.
Magari sarei andata incontro al disastro, avverando le previsioni catastrofiche di chi mi ha allevata, o magari no. Magari sarei diventata una persona più libera, creativa e disinibita, refrattaria alle regole e conscia del proprio valore individuale. O forse ancora lo sono stata in un passato remoto di cui non conservo memoria, e il mio essere attuale è semplicemente il frutto di un’evoluzione che sfugge alle possibilità di conoscenza della condizione umana.
Per ora mi accontento di essere quello che sono diventata, ed è già molto, rispetto ad annaspare sul fondo di un pozzo buio i cui confini ti opprimono nonostante tu non riesca a vederli.
Ascolto la mia anima urlare e sono addirittura in grado di sorriderle, mentre le dico: “E taci, una buona volta! Prima o poi il momento di cavalcare nuda arriverà anche per te, se ne avrai ancora voglia. Anche se il cavallo penserà (lo so per certo): ma guarda che mi tocca fare…”

Collier, Lady Godiva


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Fiesta!

Sempre quella sensazione di vivere su un crinale. Sempre in allerta, come se rilassandoti del tutto fossi certa di rotolare giù, da una parte o dall’altra.
Sempre quell’attesa sorniona della punizione per qualche brumosa colpa non meglio identificata, ma che di sicuro hai commesso. Fosse anche solo per il fatto di aver avuto, finora, una vita tutto sommato tranquilla, tanto che per portarti avanti cominci a punirti un po’ da sola, come facevi da ragazzina, quando per paura di cadere durante una discesa particolarmente aspra sugli sci o sui pattini a rotelle, ti buttavi a terra da sola, sfracellandoti peggio che per una caduta accidentale.
Avanzi maleolenti di educazione cattolica?
Scarsa autostima?
Poco importa, in fondo. In nessuno dei due casi vale la pena di addentrarsi troppo. Si rischia di conciarsi come quelle sonde che vengono infilate nelle colonne degli scarichi per trovare le falle.
Sempre faccende merdose, sono.

Meglio sdrammatizzare con  una bella vacanzina in centro Italia con due amici.
Di cui una russa.
E l’altro russa.

Beh.
Lei è un gran bel pezzo di blogger; oltre che un’esperta di lingue dall’eloquio affascinante avrebbe potuto diventare una “personal shopper” di successo (un paio di clienti li avrebbe trovati soltanto in quel weekend).
Lui è blogger da un bel pezzo, anch’egli molto in confidenza con le parole, ma per ragioni diverse. Per essere un noto  insonne dorme tantissimo, e per farlo sapere a più gente possibile si diletta in performances  sonore degne di un vero musicista industriale.
Tu, per sopperire alla deficienza di qualità personali, ti presenti accompagnata da alcuni prodotti tipici della tua zona: salumi, formaggi, dolci, diluvi parauniversali.

Gozzovigliate allegramente fino a tarda notte, a suon di Vignanello doc e soci.
Il mattino dopo, nonostante le stanze impregnate di luce, non fate nemmeno una piega ma quando la festa patronale dell’ameno paesello esplode letteralmente facendo tremare la casa più e più volte, ti svegli di botto (è il caso di dirlo) convinta che sarebbe il caso di cercare subito un rifugio antiaereo, se solo i fumi dell’alcol ti permettessero di capire dove cacchio sei. Forse a Gaza?
Mai avresti pensato che potesse esistere gente che festeggia sparando bombe in cielo in pieno giorno.
Ora lo sai: esiste. E lo fa per due giorni di fila, di cui il secondo al mattino presto. Giusto per convincere gli increduli.

La zona però è molto bella.
Sono luoghi che trasudano storia, e amore per la terra.
Scopri una volta di più quanto può essere piacevole addentrarsi in territori gestiti in armonia e rispetto dell’ambiente naturale, quanto ti piace stare in compagnia di persone aperte e stimolanti, quanta deferenza provi verso l’arte.
Quanto te piace magnà bbene, soprattutto.
Impari dal simpatico custode di una chiesa, un po’ folle ad esser proprio pignoli ma infinitamente colto rispetto a te, che prima del Concilio di Trento il peccato era prerogativa femminile (ah, e dopo no?), per cui ti dici che, considerati i quasi cinquecento anni che son passati, forse è ora di gettare nell’umido gli avanzi maleolenti di cui sopra.
Entri così velocemente nello spirito goliardico del luogo che al terzo giorno, guardando un manifesto teatrale, ti par di leggere “Romeo e Porchetta”. Bah.
Le ore corrono via, metaforicamente parlando.
Gli amici, come in un futuribile orologio umano, sanno mettere le ali al tempo, e anche a te, visto che, contrariamente alle tue pessimistiche previsioni, riesci ad infilarti nel treno del ritorno al volo.

Se continui così finirà che un giorno o l’altro ci cadrai veramente, dal crinale.
In stato di ubriachezza.

esempio di futuribile orologio umano

esempio di futuribile orologio umano


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Quante estati fa…

Sguscio con la solita delicatezza pachidermica  dalla corsia della pasta a quella dei biscotti e il mio sguardo si scontra col tuo. Lo stesso sguardo acquoso che avevi trenta, no, trentacinque anzi quasi quarant’anni fa.
Quando eri la mia migliore amica.
Il sorriso affiora spontaneo da entrambe le parti ma la sorpresa è tale e il tempo passato così tanto che qualunque iniziativa resta impantanata in un doppio “ciao”, soffiato prima di scivolare via, ognuna risucchiata dal suo carrello.
Sto ancora maledicendo la timidezza e gli scarsi riflessi che mi hanno impedito di abbracciarti, e penso che lo stesso stia facendo tu, quando ti incontro di nuovo e si scatena il “carramba che sorpresa” nel bel mezzo della corsia centrale, moderno luogo d’incontri per gente che passa la propria vita a correre.
La lacrimuccia per fortuna ce la risparmiamo, mentre invece le parole sfociano alla grande, andando a ricoprire appena il fondo dell’abisso temporale che  divide le nostre vite.

Troppe cose da raccontare impediscono ai discorsi di seguire un filo logico. Ci si limita all’essenziale, si saltella qua e là e più che altro parli tu. Come una volta, del resto.
Intanto io non ascolto mica tanto bene, catturata come sono dai ricordi. Scruto il tuo viso, invecchiato come deve sembrarti il mio, ma i miei occhi in realtà guardano dietro di te. Vedono quattro bambini e un giardino grande,  i pomeriggi infiniti di quelle estati che duravano di più e scaldavano davvero, le merende sulle panchine, gli scherzi alle vicine antipatiche, la “Banda dei quattro” col suo statuto e il codice segreto nascosti tra le rocce, il tuo fratellino che piangeva per nulla e i tuoi genitori che sgridavano sempre te, la trasmissione che conducevamo insieme alla radio la domenica pomeriggio, incentrata sui cantautori, dei quali tu sapevi tutto e io, tanto per cambiare, poco più di niente.
Mi presenti tuo marito. Io non ho più mariti da presentare, ma non faccio alcun accenno all’argomento, tanto  lo so che la tua famiglia ti avrà prontamente informata di tutto.
Si parla del lavoro. Ci si interroga reciprocamente sulla salute degli anziani genitori.
E’ quando il discorso devia dove è naturale che sia, sui figli, che la memoria va a incastrarsi sulla crepa che danneggiò definitivamente la nostra amicizia.
Parlando del tuo primogenito ti illumini tutta, quasi gorgheggi, lanci occhiate tronfie al consorte e non fai che ripetere quanto il pupo primeggi negli studi. “Pensa che quando prende un trenta rimane deluso!”.
Poverino.
Anche le mie figlie sono bravissime a scuola, ma io me lo tengo per me. Come tenni nascosta la ferita inferta alla mia gioia dalle tue parole corrosive di tanti anni fa: avevo da poco superato con successo l’esame di terza media e tu, dall’alto della tua superbia, invece di congratularti osservasti che secondo te non meritavo la stessa votazione eccellente ottenuta da te l’anno prima.
Avrei dovuto risponderti che se avevamo raggiunto lo stesso risultato tu studiando molto e io poco, forse non era il caso di vantarsi troppo, ma non ne fui capace.
Ora, come allora, rimango spiazzata. Non ho mai imparato a reagire di fronte a chi ostenta la sua presunta superiorità. Vorrei farlo ma forse la verità è che non ritengo sia il caso.
In fondo fai la maestra elementare e non mi risulta che tu abbia preso un Nobel.
Auguro di tutto cuore a tuo figlio di prenderlo per te.

E alle mie, di essere felici.


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Germogli

In genere non serve molto, per renderti felice.
Salute tua e dei familiari a parte – argomento che dopo i quaranta, ti piaccia o no prende la sua importanza – basta anche solo un buon libro, una birretta, la fumatina sul balcone mentre lo sguardo corre da dentro a fuori e viceversa, qualche coccola, un lavoro fatto bene, un impegno piacevole (uno, anche piccolo) nel weekend, la scarpa che ti dona.
I sogni grandi ti han sempre fatto paura. Incombono lassù e se poi non li realizzi ti possono schiacciare.
Preferisci quelli maneggevoli e colorati, leggeri, che porti legati al polso con un filo come palloncini, collegati tramite te alla terra.
Non ritieni di essere una persona di grandi pretese.
Di solito.

Poi arrivano momenti in cui nulla ti basta, niente ti soddisfa. Avresti voglia di qualcosa che non sai, ma sai che non è una fiesta. Vedi crepe in qualsiasi idea, ammazzi il tempo ma quello, come in certi film, si risveglia sempre e cerca di farti fuori a sua volta. Un modo per stare meglio per un po’ ci sarebbe, ma ti conosci bene, e sai che non è una soluzione adatta a te.

Quand’è così, l’unica cosa è andare, da sola, e allora vai.
La pioggia non ti ha mai frenata e non lo farà neanche stavolta.
Parti con il tuo zainetto in spalla, lo sguardo rivolto alla montagna. Il bastoncino da trekking più che altro come dissuasore per eventuali attaccatori di sgraditi bottoni.
Macini chilometri e pensieri, la pelle delicatamente rinfrescata. Quando arrivi al punto in cui fosti aggredita quando avevi sedici anni, sputi per terra.
Raggiungi un paesino arrampicato. Vorresti tanto un caffè e un bagno ma sei un’idiota e non hai preso neanche un euro. Entri nel bar, dove elemosini la toilette, reprimi il desiderio di caffè e prosegui.
Poco più in su passi davanti a una cascina in cui vendono il formaggio buono, ma sei sempre la stessa idiota di prima, quindi fingi di non vederla.
In compagnia del tuo neurone superstite stai benissimo; è tutto uno scambio vivace di impressioni. Il movimento fa bene anche a lui.
Quando la pioggia si fa troppo insistente apri l’ombrellino e guardi, compatendoli, gli automobilisti che ti guardano compatendoti.

Torni verso casa fradicia e stanca, finalmente felice.
Prima di entrare alzi gli occhi e il tuo palloncino gonfio di sogni modesti è sempre là, saldamente ancorato al suo fragilissimo filo.

 

Costruiamo tanto sulle occasioni colte quanto su quelle che lasciamo andare via. E non è detto che l’erba germogliata sui detriti delle prime sia più verde dell’altra.

montagne pioggia


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Piccolo omaggio estivo ai ricordi

Un sacchetto di carezze

Circondami le spalle.
Così che il giorno
sia meno greve
e l’aria che respiro
trasparente.

Legami alla vita
quel tuo filo azzurro.
Così che il peso specifico
del sogno
mi sollevi un poco
al di sopra dell’alba.

Averti dentro
lievita il mio spazio.
Una doppia pelle
tutto intorno
protegge flussi densi
di estasi segrete.

Prendi le mie mani,
torna a casa
con un sacchetto di carezze.
Anche ad occhi chiusi
e cuore spento
io ti ritroverò.


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I diari della sigaretta

Inquietudine è un insieme di lettere vergato su una striscia di bianchetto.
Sotto, ben nascosta, c’è la parola vera, ma per andarla a leggere non basta una grattata con l’unghia.
Inquietudine è passare da una stanza all’altra, e poi a un’altra e poi a quella di prima senza saperne la ragione. E’ aprire il frigorifero e stare lì imbambolati a osservarne il contenuto chiedendosi perché mai si sia fatto quel gesto. Trovarsi al piano terra e non ricordare di aver fatto le scale.
E’ lavorare senza riuscire a concentrarsi, lasciando dieci cose a metà senza poterne finirne nemmeno una. Trovarsi , dopo,  più stanchi che mai.
Comporre un numero di telefono e farsi prendere dal panico quando dall’altra risponde qualcuno la cui identità ci è improvvisamente ignota. Osservare con sguardo vitreo ma convincente la collega che da dieci minuti ti racconta i cavoli suoi, fare sì sì con la testa. Vuota.

L’inquietudine non ha la faccia.
Prende una serie di gesti apparentemente slegati e li incolla insieme ma non asciuga. Rimane vischiosa per un bel po’; appiccicando e appiccicando riesce a formare agglomerati di ore che diventano un bolo, impossibile da digerire.
Non si scioglie con l’alcool. Non si placa col fumo. Rimane a vegliare il tuo sonno leggero e ti aspetta ai piedi del letto, pronta a infilarsi tra la pelle e i vestiti.

L’inquietudine è un temporale.
Il tuono rimbalza tra le pareti e il soffitto del cielo, spargendo il suo rombo indistinto nell’aria ma l’origine è là: nel lampo che strappa l’orizzonte in un punto preciso e fugge ricucendolo alla svelta, prima che il tuo occhio lo possa imprigionare.

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