Dentro di me c’è un’anima che urla.
E’ un’anima libera e sanguigna, piuttosto ingombrante, tendente agli eccessi.
A quest’anima che ho dentro piace ridere sguaiatamente, cantare a squarciagola, ballare scuotendo i capelli, ubriacarsi fino a non sapere più chi è, dire e scrivere tutto ciò che le salta in mente. Vorrebbe correre scalza, spogliarsi nuda e cavalcare controvento, accoppiarsi senza remore con le anime che le sono congeniali.
A volte le capita di arrabbiarsi e le viene voglia di spaccare tutto, insultare il mondo, sbattere la testa contro il muro, ma di rado, perché di fondo è un’anima positiva e preferisce concentrarsi sulle cose belle e goderne, con tutta la gioia possibile, il meglio. Chiamala scema.
Fino all’adolescenza l’ho lasciata crescere con me senza farci troppo caso, poi ho cominciato ad averne paura, poiché usciva troppo dagli schemi che il mondo mi disegnava addosso. Temevo che mi portasse troppo lontano, in luoghi affascinanti ma pericolosi da cui forse non sarei più riuscita a tornare.
Adattabile, obbediente e un po’ codarda come sono, sempre desiderosa di ottenere approvazione, ho cominciato a vestirla da ragazza perbene prima e da giudiziosa madre di famiglia poi, a tapparle la bocca e legarle le mani quando mi accorgevo che stava esagerando, a vietarle di cedere a tentazioni che avrebbero potuto oltrepassare il confine del controllo, a spalmarla di strati e strati di severità e buon senso fino a domarla del tutto, fingendo di ignorarne le urla e gli scuotimenti, confinando alla dimensione onirica la sua esuberanza.
Il compromesso sembrava accettabile e duraturo.
A un certo punto però il conflitto di interessi ha generato una crisi. Non si può pretendere di contenere un rampicante in uno spazio limitato ed aspettarsi anche che fiorisca.
Bisognava forse capirlo prima di arrivare al punto di rottura, ma spesso è necessario cadere e farsi male per imparare a stare in sella in maniera più o meno decente.
Ciò che sono adesso è il risultato di un grosso lavoro e devo dire che, a parte qualche rimpianto per i limiti che mi sono imposta e un po’ di rimorso per il male che inevitabilmente ho dovuto fare ad altri lungo il percorso, e che avrei volentieri evitato, non mi posso lamentare.
Ho lasciato infine che la bilancia pendesse un po’ dalla parte della mia reale natura, non senza dolorosi compromessi e rinunce. Mi pare di somigliare un po’ di più alla mia vera me stessa, rispetto a qualche anno fa. Le cicatrici poi arrivano con la vita; accettarle e vederle come ornamenti fa parte del cammino, che non finisce mai.
A volte penso che mi piacerebbe sapere cosa sarei diventata, se avessi assecondato di più la mia indole, senza tutte quelle forzature. Mi capita soprattutto quando sarei tentata di lasciare le redini e mi rendo conto che ormai non sono più in grado di farlo del tutto.
Magari sarei andata incontro al disastro, avverando le previsioni catastrofiche di chi mi ha allevata, o magari no. Magari sarei diventata una persona più libera, creativa e disinibita, refrattaria alle regole e conscia del proprio valore individuale. O forse ancora lo sono stata in un passato remoto di cui non conservo memoria, e il mio essere attuale è semplicemente il frutto di un’evoluzione che sfugge alle possibilità di conoscenza della condizione umana.
Per ora mi accontento di essere quello che sono diventata, ed è già molto, rispetto ad annaspare sul fondo di un pozzo buio i cui confini ti opprimono nonostante tu non riesca a vederli.
Ascolto la mia anima urlare e sono addirittura in grado di sorriderle, mentre le dico: “E taci, una buona volta! Prima o poi il momento di cavalcare nuda arriverà anche per te, se ne avrai ancora voglia. Anche se il cavallo penserà (lo so per certo): ma guarda che mi tocca fare…”
