Con un lancio preciso sparo il mozzicone attraverso la fessura. Spio la traiettoria nello specchietto, quel tanto che basta per vederlo esplodere in un piccolo fuoco d’artificio rosso.
Posso chiudere il finestrino, ora, per questa volta è andata bene, nei prossimi sette minuti non mi darò del deficiente mentre l’inconfondibile puzzo di bruciato mi costringe a fermarmi e cercare il bastardo tra i sedili, prima che la carretta vada a fuoco.
Ci mancherebbe solo questo, a rendere perfettamente merdoso questo venerdì avariato.
Dodici febbraio, me lo devo segnare, l’anno prossimo staccherò la sveglia e dormirò tutto il giorno, cascasse il mondo, anche se di questo passo cascherà veramente e mi seppellirà con tutto il letto.
Ce l’ho ancora davanti la faccia del capo: tonda, paonazza, a un passo dall’esplodere: la vena tortuosa in alto a sinistra del cranio pelato, minaccia pulsante, la bocca allargata e disgustosamente umida: “Ti tengo d’occhio, Geriani, TI TENGO D’OCCHIO!!”.
Io stavo lì, davvero contrito, ipnotizzato dalla vena, l’espressione ingenua o ebete a seconda dei gusti che mi viene quando mi sento aggredito e che, lo so, alimenta l’altrui incazzatura, lo so.
Non ricordo cos’altro ha detto, tutto preso com’ero da quel volto di neonato brutto-congestionato-urlante, “Adesso esplode davvero”, pensavo, e già vedevo brandelli di carne e occhi e pelle di cervello vuota spiaccicarsi alle pareti, consideravo con raccapriccio il fatto che i denti mi sarebbero arrivati in faccia.
E’ che io non c’entro niente con quel posto.
Le giacche e le cravatte e i sorrisi di plastica mi danno il vomito.
E gli ammiccamenti, e la competizione.
Ho mentito, sì, è solo questa la mia colpa: aver ceduto al disperato istinto di sopravvivenza grazie al quale superai brillantemente la selezione per ottenere il lavoro. Ho mentito, recitato, bene, ecco. Del resto è quello che ci si aspetta da me, no? Che imbrogli la gente.
Ho mentito spudoratamente, come un tossico in crisi d’astinenza, come posseduto dall’idea di una scopata dopo mesi di astinenza; cosa volete che me ne importi delle vostre polizze, dei vostri contratti?
Lo so che i clienti me lo leggono negli occhi l’imbarazzo.
Lo so che, con tutti i corsi che mi avete costretto a frequentare, non sono ancora convincente.
Lo so che non basta conoscere a memoria le condizioni di assicurazione, lo so.
Ma i miei occhi non sanno imparare a fingere, non obbediscono.
Fatemi fare qualcos’altro. Venitemi incontro.
Ma ora è un serpente a venirmi incontro. La stessa, affezionata, fotocopiata sequenza di fari che, come briciole di pane, ogni sera mi accompagna a casa, casomai mi perdessi, casomai alla terza rotonda mi venisse in mente di sbagliare uscita, casomai.
Bip – whatsapp – lampo verde.
Silvia, ANCORA Silvia e la sua selfie sbaciucchiosa – Se non ti chiamo sempre io, sparisci. Questo mi fa pensare che il tuo interesse per me non corrisponda al mio. Non è così, vero? Dimmi che non è così. Un bacio. Faccina triste faccina triste faccina triste bacio bacio bacio cuore gattino.
Accosto, quattro frecce, respiro di pancia come ho imparato al corso “Dominare l’emotività nociva”.
Non ho mai imparato a usare il t9 guidando. Neanche quando non guido, a dire il vero.
E’ un attimo. Steso a terra, aspiro impotente l’alito fetido della tigre, gocce di saliva puzzolente mi cadono in faccia. Ora mi mangia.
Apro il finestrino e l’aria gelida si mangia la tigre.
Rispondo – E’ proprio così. Ti tenevo buona per i momenti di magra, ora ne ho abbastanza. Ma quale bacio. Scusa.
Cancello “scusa”, nessuna faccina – invio.
Il serpente prepotente mi risucchia, con le sue sfumature bianche gialline rosse azzurrine lilla.
Fra dieci minuti sarò a casa, butterò in un angolo la cravatta; mia madre, pallida, la raccoglierà dicendo “Ti ho fatto i tortellini che ti piacciono tanto”.
Imbocco la terza rotonda.
Sbaglio uscita.